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lunedì 30 aprile 2012


Pertosse

E’ una malattia altamente contagiosa e a decorso acuto, determinata da un piccolo coccobacillo appartenente al genere Bordetella. Frequente soprattutto nei primi anni di vita, può manifestarsi anche nell’adulto. Benchè il trattamento antibiotico ne abbia sensibilmente ridotto la letalità, la pertosse continua a destare preoccupazioni per il decorso particolarmente grave quando si presenta nei primi mesi di vita.
L’agente eziologico è la Bordetella pertussis appartenente al genere Bordetella. Questo genere comprende anche le specie B. parapertussis e B. bronchiseptica, che possono dar luogo, anche se raramente, a forme cliniche di lieve entità e di occasionale riconoscimento eziologico.
Le bordetelle sono piccoli coccobacilli immobili, non sporigeni, spesso capsulati, Gram-negativi.
B. pertussis ha una struttura assai complessa; gli antigeni di maggiore interesse ai fini patogenetici ed immunitari sono:
- tossina pertossica (PT) o fattore promuovente la linfocitosi (LPF): è una esotossina termolabile responsabile delle maggiori attività biologiche di B. pertussis
- emoagglutinina filamentosa (FHA), componente della parete cellulare che ha un ruolo importante nell’adesione del batterio all’epitelio ciliato del tratto respiratorio
- pertactina (proteina della membrana esterna): è un agglutinogeno, non legato alle fimbrie, presente in tutti i ceppi virulenti di B. pertussis
- agglutinogeni vari, presenti nelle fimbrie
- proteine della membrana esterna, endotossine di natura lipopolisaccaridica, adenil-ciclasi che inibisce la fagocitosi ecc.
Il bacillo è molto labile nell’ambiente esterno dove viene rapidamente inattivato dagli agenti fisici e chimici, naturali e artificiali. B. pertussis penetra per via aerea e si localizza sulla mucosa tracheobronchiale tra le ciglia delle cellule epiteliali, aderendovi e moltiplicandosi molto attivamente, senza però invadere il circolo ematico.
Probabilmente per l’attività della sua esotossina termolabile, si ha una flogosi catarrale dell’epitelio con processi di necrosi a livello della zona basale ed intermedia.
La irritazione della mucosa provoca l’accesso parossistico di tosse.
Dopo un periodo di incubazione di 7-10 giorni che può estendersi fino a 21 gioni, la malattia esordisce con manifestazioni catarrali apparentemente banali a carico delle prime vie aeree : rino-faringite, tosse e catarro bronchiale (periodo catarrale, della durata di 1-4 settimane)
La tosse è inizialmente simile a quella che compare in altre affezioni respiratorie; tuttavia, qualche segno indicativo può essere rappresentato dal fatto che essa è prevalentemente notturna e resistente ai sedativi e dall’assenza di reperti ascoltatori toracici.
Gradualmente la tosse diventa più stizzosa ed intensa sino a dominare il quadro della malattia e acquista il carattere accessuale.
Si passa così al periodo accessuale (o convulsivo o spasmodico) con accessi più o meno frequenti nelle 24 ore (da 5-6 nelle forme lievi a 40 e più in quelle gravi) caratterizzati da tosse, ripresa ed espettorazione.
Gli accessi iniziano con ripetuti brevi colpi spasmodici di tosse seguiti da una inspirazione profonda a glottide chiusa, rumorosa e sibilante (ripresa), cui fa seguito una nuova serie di colpi di tosse seguiti da inspirazione forzata e così via per 3-4 volte.
All’accesso segue emissione di muco denso e filante (come il bianco d’uovo) e spesso vomito.
Il periodo convulsivo può durare fino a 3-4 settimane; gli accessi diminuiscono quindi di intensità, la tosse perde il suo carattere spasmodico, le riprese sono meno numerose e il muco diventa più fluido.
Si possono avere forme cliniche lievi o inapparenti.
L’infezione provoca la comparsa di anticorpi che possono essere rivelati con metodiche immunoenzimatiche; l’immunità che ne consegue è duratura.
Diagnosi
Gli accertamenti diagnostici consistono principalmente nella ricerca diretta di B. pertussis nelle secrezioni naso-faringee (aspirato naso-faringeo) mediante l’esame colturale; le colonie sospette sono identificate mediante prove di agglutinazione con antisiero specifico.
La presenza di B. pertussis può essere dimostrata anche con la reazione a catena della polimerasi (PCR), che è più sensibile dell’esame colturale e può essere effettuata sugli stessi campioni biologici.
La ricerca degli anticorpi diretti contro vari componenti del batterio viene effettuata con metodica immunoenzimatica su due campioni di siero, prelevati in fase acuta e in fase di convalescenza; pertanto è di limitato valore per la diagnosi clinica, ma può essere utilizzata per indagini siero-epidemiologiche o in studi sull’efficacia dei vaccini.
Epidemiologia
La pertosse è malattia diffusa in ogni paese e clima, anche se con incidenza assai diversa, a carattere prevalentemente endemico ma con esacerbazioni epidemiche ad intervalli variabili di 3-5 anni, che sono dovute all’accumulo di soggetti suscettibili e che in genere si esauriscono in qualche mese.
I casi stimati al mondo sono circa 50 milioni per anno, con poco meno di 1 milione di morti, per la maggior parte nei paesi in via di sviluppo.
Nei paesi industrializzati, invece, la morbosità e la letalità sono nettamente diminuite negli ultimi 40 anni, in funzione delle migliori condizioni di vita e dell’impiego della vaccinazione.
In Italia, da quando l’adesione alla vaccinazione ha raggiunto quote elevate (attualmente oltre il 95% dei nuovi nati è vaccinato) non si sono più verificate recrudescenze epidemiche e l’endemia si è notevolmente ridotta, tanto che nel 2005 il numero di casi notificati è stato di 802.
Bisogna tenere presente, però, che i dati ufficiali sono in genere molto inferiori a quelli reali, sia per mancata diagnosi, sia per omissione della notificazione.
L’uomo è l’unica fonte di contagio: oltre il malato, sono importanti i portatori asintomatici e gli individui affetti da forme lievi.
La contagiosità è massima durante il periodo di incubazione e quello catarrale, poi diminuisce progressivamente fino a scomparire all’incirca dopo la seconda settimana dall’inizio della tosse.
La trasmissione, data la scarsa resistenza del bacillo nell’ambiente esterno, avviene quasi esclusivamente per contagio diretto, attraverso le goccioline di saliva proiettate con la tosse.
Nei paesi dove i livelli vaccinali sono bassi è frequente soprattutto nei bambini di età compresa tra 1 e 5 anni.
La letalità nel primo anno di vita è particolarmente elevata, con una frequenza di decessi che può raggiungere il 70-90% dei casi clinicamente manifesti, a causa delle complicanze bronco-polmonari e talvolta neurologiche.
L’adulto contrae la malattia di solito in forma più lieve, per cui la maggioranza dei casi viene diagnosticata come bronchite.
Prevenzione
L’isolamento del malato (in ospedale o nella propria abitazione) sarebbe utile per limitare i contagi, ma è difficile trattandosi spesso di soggetti non costretti a letto.
La durata dell’isolamento è attualmente di 7 giorni dall’inizio della terapia antibiotica.
La disinfezione, data la labilità del batterio, non è considerata necessaria; alla fine della malattia sono sufficienti un’accurata pulizia e una prolungata aerazione dell’ambiente.
Per i conviventi ed i contatti si consiglia la chemioprofilassi con eritromicina, che deve essere continuata per 14 giorni dopo l’esposizione, specialmente nei neonati e nei bambini al di sotto di 4 anni anche se immunizzati, giacchè la protezione assicurata dal vaccino non è sempre sufficiente.
Poiché la trasmissione diretta per via aerea già nel periodo catarrale aspecifico rendono inefficaci gli altri interventi preventivi, la vaccinazione resta la sola concreta possibilità di prevenzione.
In passato i vaccini disponibili erano quelli a cellule batteriche intere, allestiti con sospensioni di B. pertussis inattivate con formolo; l’efficacia protettiva variava a seconda dello stipite batterico impiegato e delle modalità di preparazione dei vaccini.
Attualmente sono usati vaccini antipertosse a cellulari, che differiscono da quelli cellulari in quanto contengono, invece del batterio intero, la tossina pertussica inattivata con formolo o ottenuta in forma atossica da batteri geneticamente modificati (tossoide pertussico) assieme ad uno o più dei seguenti antigeni purificati : emoagglutinina filamentosa, fimbrie (agglutinogeni), pertactina.
Questi vaccini hanno efficacia protettiva maggiore rispetto a quelli cellulari (85%), producono una immunità duratura e sono meno reattogeni (causano un minor numero di reazioni locali e generali).
Essi sono combinati nel vaccino esavalente (DTPa-IPV-HBV-Hib) e si somministrano con il medesimo schema : per l’immunizzazione di base, si somministrano tre dosi al terzo, quarto-quinto mese e undicesimo-dodicesimo mese di vita.
Una dose di richiamo va somministrata al quinto-sesto anno di vita (vaccino combinato tetravalente DTPa-IPV) ed un’ulteriore dose a 11-12 anni con un vaccino a dosaggio ridotto (vaccino trivalente Tdpa)
Profilassi immunitaria passiva: la somministrazione di immunoglobuline umane specifiche, ottenute a titoli elevati con l’impiego di vaccini acellulari, si è rivelata utile nella terapia soprattutto per quanto si riferisce alla durata degli accessi di tosse; è di limitata efficacia, invece, nella pratica profilattica.

mercoledì 25 aprile 2012


Difterite

La difterite è una malattia tossi-infettiva, acuta e contagiosa, determinata da un batterio che si localizza nelle prime vie aeree, dove provoca una flogosi fibrino-necrotica con formazione di pseudomembrane; il batterio elabora una tipica esotossina attiva a distanza su diversi organi e tessuti. Molto grave e a larga diffusione in passato, la difterite è attualmente eliminata in Italia ed in molti altri paesi grazie alla vaccinazione di massa.
L’agente ziologico è il Corynebacterium diphtheriae, appartenente al genere Corynebacterium, della famiglia delle Corynebacteriaceae. E' Gram-positivo, immobile, asporigeno e privo di capsula. Sono conosciuti 3 biotipi di C. diphtheriae : mitis, intermedius, gravis, cui corrispondono non meno di 57 sierotipi ed almeno 19 tipi fagici.
La caratteristica biologica più importante del bacillo difterico è la produzione di una esotossina assai attiva, per mezzo della quale il bacillo svolge la sua azione patogena.
E’ una proteina costituita da un frammento A responsabile dell’azione tossica e da un frammento B responsabile dell’adesione ai recettori cellulari, il cui meccanismo di azione si esplica essenzialmente attraverso una inibizione della sintesi proteica a livello ribosomiale.
La sua produzione è legata alla presenza nella cellula batterica di un profago (profago beta), che ne è il determinante genetico.
I ceppi tossigeni di bacillo difterico contengono il profago beta; i ceppi non tossigeni (bacilli difterici modificati) ne sono privi.
La difterite è essenzialmente una tossiemia: il bacillo si localizza nella sede dell’infezione, che di solito è rappresentata dalle mucose delle prime vie aeree (cavità nasali, faringe, laringe) e qui si moltiplica elaborando la esotossina che si diffonde per via ematica a tutto l’organismo.
Sulla mucosa si produce una flogosi di tipo fibrinoso-necrotico, con la comparsa di un essudato costituito, oltre che dall’epitelio necrotico, da fibrina, emazie e leucociti con presenza di numerosi bacilli difterici. Questo essudato, compatto e tenacemente aderente al tessuto sottostante (dal quale si asporta con difficoltà), costituisce le tipiche “pseudomembrane”, che rappresentano il dato clinico obiettivo più significativo della malattia.
A distanza la tossina agisce soprattutto sul sistema nervoso centrale, sul miocardio, sul rene e sui surreni, dove dà origine a processi di tipo degenerativo dei parenchimi e della sostanza nervosa.
A seconda della localizzazione, si distinguono tre forme cliniche principali:
- l’angina difterica, che è la più frequente, con localizzazione sulle tonsille e sulla mucosa peritonsillare (velo pendulo, ugola)
- la laringite difterica (croup), che è la più grave per i fenomeni di asfissia cui si accompagna
- la rinite difterica, che è la più insidiosa dal punto di vista della diffusione del contagio, in quanto non facilmente diagnosticanile
Altre localizzazioni minori e più rare sono : la congiuntivale, la auricolare, la vulvo-vaginale, la cutanea (ombelicale del neonato).
Dopo un periodo di incubazione variabile da 2 a 8 gioni, la malattia inizia in maniera subdola con febbre poco elevata, cefalea, talora vomito, modico dolore faringeo. La mucosa oro-faringea appare inizialmente arrossata e leggermente tumefatta, ma ben presto compaiono le caratteristiche pseudomembrane, di aspetto liscio, di colore bianco-grigiastro, che tendono rapidamente ad estendersi, aderendo ai tessuti sottostanti.
L’edema della mucosa circostante è notevole, vi è adenopatia a carico dei linfonodi mascellari ed anche latero-cervicali.
Nella forma laringea, dopo un primo periodo con raucedine (periodo disfonico), la comparsa delle pseudomembrane, l’edema e lo spasmo laringeo causano una progressiva ostruzione del lume laringeo con difficoltà respiratoria (periodo dispnoico), cui possono seguire anossiemia con cianosi, coma e morte (periodo asfittico).
La rinite difterica è la forma clinicamente meno grave, spesso non riconosciuta, che si osservava più spesso nei lattanti ed era caratterizzata soprattutto da scolo nasale muco-purulento con ulcerazioni delle narici e del labbro superiore.
Alla sintomatologia locale si accompagna quella tossica generale, con alterazioni cardio-circolatorie e renali e con la comparsa delle paralisi che possono essere precoci o tardive e che interessano di solito la sede delle lesioni; le più frequenti sono quelle dei muscoli del faringe, del laringe e dei muscoli oculari.
Diagnosi
La diagnosi certa di difterite può essere posta solo dopo che è stata dimostrata la capacità di produrre la tossina da parte dello stipite eventualmente isolato; infatti né l’esame microscopico né i caratteri colturali forniscono dati sicuri.
Di fronte a queste incertezze è comunque utile allestire, oltre all’indagine colturale, l’esame microscopico che, pur con i suoi limiti, può fornire un dato presuntivo molto importante; viene eseguito sull’essudato pseudomembranoso prelevato mediante tampone sterile e colorato con il metodo di Neisser o con altri (Gins, Albert, ecc.), che evidenziano i granuli metacromatici.
Per la ricerca colturale si utilizzano terreni arricchiti con sangue di montone, resi selettivi dall’aggiunta di tellurito di potassio (agar Columbia, ecc.).
Gli accertamenti diagnostici descritti venivano effettuati correntemente in passato.
Poiché la difterite è di fatto eliminata, accade sempre più raramente di dovere fare ricorso ad essi; proprio in questa fase, però, è importante individuare con certezza gli eventuali casi che ancora si dovessero verificare, giacchè essi rappresenterebbero degli eventi sentinella.
Epidemiologia
Il profilo epidemiologico della difterite si è profondamente modificato nei paesi socialmente elevati per l’applicazione su larga scala della vaccinoprofilassi.
La malattia, infatti, è in fortissima diminuzione in molti paesi, in altri è scomparsa ormai da anni; resta endemica in diverse aree dell’Asia e dell’Africa.
In Italia, nel periodo 1990-95 sono stati notificati solo 4 casi, di cui uno importato (1993); gli altri hanno riguardato una bambina di 5 anni non vaccinata (1991), una donna adulta (1994) e una bambina di 2 anni regolarmente vaccinata (1995), dalla quale è stato isolato uno stipite di C. diphtheriae varietà mitis, non tossigeno.
Nel 1996 è stato segnalato l’ultimo caso autoctono “probabile” di difterite.
Attualmente, la difterite può essere considerata eliminata nel nostro paese, anche se non si può escludere che ceppi di bacillo difterico tossigeni siano ancora presenti.
L’uomo è l’unico serbatoio naturale dell’infezione : il malato innanzi tutto ed il portatore, sia quello convalescente e cronico, sia il portatore sano.
Nei soggetti che hanno superato la malattia il bacillo difterico può persistere per alcune settimane ed in alcuni casi anche per mesi o anni.
Importanti sono i portatori sani, la cui prevalenza nella popolazione andava in passato dallo 0,2 all’1%, ma poteva essere molto più elevata, fino anche al 20% ed oltre, nelle comunità nelle quali si erano manifestati casi di difterite.
In proposito, va ricordato che la vaccinazione antidifterica conferisce protezione contro la tossina e quindi contro la malattia, ma non nei riguardi dello stato di portatore; pertanto non si interrompe il flusso diffusivo dei bacilli difterici nelle popolazioni.
Il contagio è interumano e può essere sia diretto per via aerea, sia indiretto, data la discreta resistenza del bacillo nell’ambiente esterno, attraverso oggetti di uso specialmente tra i bambini (fazzoletti, stoviglie, penne e matite, giocattoli).
Prima dell’impiego obbligatorio della vaccinoprofilassi l’età più colpita era quella compresa tra i 2 e i 5 anni.
Attualmente nei paesi in cui la vaccinazione è estesamente praticata i pochi casi che si manifestano riguardano soggetti di età superiore ai 15-20 anni, in cui l’immunità vaccinale si è attenuata.
In Italia, la copertura immunitaria nei confronti della tossina difterica è elevata nelle fasce di età giovanili, ma tende a ridursi negli adulti per la mancanza di dosi di richiamo.
Prevenzione
La prevenzione consiste essenzialmente nella vaccinazione, la cui efficacia è dimostrata dalla rarefazione della malattia, fino alla sua scomparsa, in tutti i paesi che la praticano estesamente.
Anche nell’attuale fase di assenza di casi in Italia è necessario insistere con la vaccinazione, senza trascurare altri interventi preventivi.
Alla denuncia immediata di un eventuale caso sospetto che dovesse essere osservato deve seguire subito l’inchiesta epidemiologica, indirizzata soprattutto alla ricerca di eventuali portatori nell’ambito della comunità di cui fa parte il caso.
L’isolamento del malato in ospedale è necessario anche per fornire una adeguata assistenza, data la gravità della malattia e la necessità di terapie che devono essere eseguite sotto controllo (immunoglobuline antidifteriche) o con interventi d’urgenza (intubazione, tracheotomia).
L’isolamento deve continuare fino alla negatività di 3 esami batteriologici del secreto rinofaringeo, eseguiti ad intervalli di almeno 24 ore dopo la guarigione clinica e la fine della terapia antibiotica.
La disinfezione deve essere continua e riguardare tutto ciò che viene a contatto con le secrezioni del malato; inoltre, data la resistenza del bacillo difterico all’essiccamento, sarà opportuna la disinfezione terminale dell’ambiente, anche se molti considerano sufficienti la semplice pulizia e la ventilazione prolungata.
Per conviventi e contatti stretti sono prescritte la sorveglianza sanitaria per 7 giorni a partire dall’ultimo contatto con il malato e, come si è detto, indagini di laboratorio per identificare eventuali portatori asintomatici.
La vaccinazione antidifterica è obbligatoria in Italia dal 1939; a partire dal 1968 è stata associata a quella antitetanica con un vaccino bivalente (DT) o con uno trivalente contenente anche quello antipertosse (DTP).
Attualmente , è in uso un vaccino esavalente (DTPa-IPV-HB-Hib) per l’immunizzazione contemporanea contro la difterite (D), il tetano (T), la pertosse (con vaccino acellulare Pa), la poliomielite (con vaccino IPV a virus uccisi di Salk), l’epatite B (HB) e l’Haemophilus influenzae di tipo b (Hib).
Il vaccino antidifterico è costituito dalla anatossina (o tossoide) ottenuta secondo la metodica di Ramon, trattando cioè la tossina difterica con lo 0,4% di formolo e mantenendo la mescolanza a 38-40°C per un mese.
Con questo trattamento la tossina perde il potere tossico conservando immodificato quello antigene. Per ottenere una migliore risposta anticorpale, l’anatossina viene adsorbita su idrossido o fosfato di alluminio; in questo modo essa viene trattenuta più a lungo nella sede di inoculazione, viene rilasciata più lentamente ed esercita una più prolungata stimolazione del sistema immunitario.
La vaccinazione antidifterica viene eseguita con la somministrazione intramuscolo di 3 dosi del vaccino esavalente che contiene anche l’anatossina : la prima dose è somministrata per via intramuscolare al terzo mese di vita, la seconda al quarto-quinto mese (dopo 6-8 settimane dalla precedente), la terza all’undicesimo-dodicesimo mese.
Una dose di richiamo viene praticata nell’età scolare, al quinto-sesto anno di vita, contemporaneamente al richiamo contro il tetano, la pertosse e la poliomielite.
Per il richiamo si usa un vaccino tetravalente DTPa-IPV.
Il ciclo completo con tre dosi stimola la risposta anticorpale protettiva nel 98% dei vaccinati, con una durata della protezione di almeno 10 anni. Le reazioni all’anatossina sono rare e consistono in gonfiore e dolorabilità al punto di inoculazione, accompagnati in qualche caso da febbre.
La mancata somministrazione di successive dosi di richiamo e la diminuita possibilità di reinfezioni spontanee che mantengano elevati i titoli anticorpali, hanno determinato una diminuzione della immunità vaccinale soprattutto nei soggetti adulti.
In Italia, una percentuale di popolazione adulta già vaccinata che varia dal 10% al 40% nelle diverse regioni, possiede titoli antitossici inferiori alla soglia di protezione.
Questo spiega come la malattia nelle aree a bassa endemia si presenti nell’età adulta e perché possano insorgere episodi epidemici tra gli adulti.
Un secondo richiamo va fatto all’età di 11-12 anni con un vaccino trivalente Tdpa contenente l’anatossina difterica a dosaggio ridotto (perché nell’adolescente e nell’adulto possono manifestarsi reazioni di ipersensibilità a volte gravi), l’anatossina tetanica a dosaggio pieno e gli antigeni purificati della pertosse a dosaggio ridotto.
Ulteriori richiami in combinazione con l’anatossina tetanica (vaccino bivalente Td) possono essere eseguiti di dieci anni in dieci anni, con particolare riguardo alle categorie a rischio elevato (operatori sanitari, anziani, viaggiatori in aree endemiche, immunodepressi).

venerdì 20 aprile 2012


Febbre tifoide o tifo addominale

Largamente diffusa in numerosi paesi a clima temperato e caldo; in Italia è presente in forma moderatamente endemica soprattutto nelle zone meridionali e costiere. La febbre tifoide è una malattia endemica in tutto il mondo ed in particolare nei paesi a clima temperato e caldo.
Si manifesta abitualmente con casi isolati, ma sono frequenti gli episodi epidemici per lo più di origine idrica.
La sua incidenza è notevolmente diminuita nei paesi ad alto livello economico-sociale, mentre resta elevata nei paesi in via di sviluppo. Si stima che ogni anno si abbiano in tutto il mondo 21 milioni di casi con 200.000 decessi, in massima parte in Asia, Africa e America del Sud.
In molte nazioni europee i pochi casi di malattia che si osservano sono quasi tutti da importazione. L’Italia, purtroppo, continua a far registrare il più alto tasso di morbosità nell’ambito europeo. Nel 2005 232 casi registrati in larga parte nelle regioni meridionali ed insulari.
A differenza delle salmonellosi di origine animale, la febbre tifoide è malattia esclusiva dell’uomo
Poiché S. Typhi è esclusivamente patogena per l’uomo, esso, malato o portatore, è l’unica fonte di infezione.
Il malato espelle i bacilli tifici con le feci nelle fasi avanzate della malattia, ma anche con le urine durante la batteriemia. La malattia crea lo stato di portatore con frequenza variabile a seconda dell’età dei soggetti (è maggiore negli anziani) ed in rapporto con l’esistenza di affezioni croniche delle vie biliari e delle vie urinarie (specialmente calcolosi della colecisti e calcolosi renale) che predispongono all’insediamento dei batteri nei calcoli o nelle lesioni sclerotiche. Il portatore cronico rappresenta una importante riserva di infezione. La frequenza dei portatori è variabile da zona a zona.
Il contagio può essere diretto interumano, attraverso le mani contaminate, o indiretto, soprattutto con l’acqua e gli alimenti; quest’ultima è di gran lunga la modalità più frequente di trasmissione della malattia. L’acqua rappresenta il veicolo più temibile, perché la sua contaminazione provoca abitualmente episodi con carattere epidemico.
La sua importanza, preminente in passato, appare oggi notevolmente ridotta, grazie alla maggiore attenzione che si pone nella clorazione delle acque distribuite dagli acquedotti comunali.
Nell’acqua S. Typhi può sopravvivere fino ad oltre 40 giorni.
La contaminazione più spesso avviene per infiltrazione di liquami nella rete idrica per disconnessione di giunture delle tubazioni e contemporanea rottura di condotte fognarie nel sottosuolo; altre volte la contaminazione può avvenire come conseguenza di malfunzionamento degli impianti di potabilizzazione. Gli alimenti che più spesso agiscono come veicoli di trasmissione delle infezioni a trasmissione fecale-orale sono i frutti di mare e gli ortaggi.
Alla base della loro contaminazione sta l’irrazionale smaltimento dei liquami di fogna.
L’inquinamento dei frutti di mare può avvenire direttamente nei bacini di allevamento in seguito allo scarico di liquami nei tratti di mare circostante.
I mitili si nutrono filtrando l’acqua e trattenendo tutto quanto è in sospensione, compresi virus e batteri; in questo modo si ha una vera e propria concentrazione di microrganismi all’interno dei molluschi.
L’attuale normativa che impone l’impianto della mitilicoltura in acque non contaminate e vieta la raccolta di mitili da acque contaminate, ha grandemente ridotto il rischio di trasmissione, così come il divieto di bagnare continuamente i mitili raccolti con acqua di mare.
Meno rilevante è il rischio rappresentato dalle verdure fresche, per le norme di legge che ne vietano l’irrorazione con liquami e perché il semplice lavaggio con acqua corrente è sufficiente per allontanare i microrganismi presenti. In alcuni casi possono essere responsabili altri alimenti.
L’agente eziologico è Salmonella Typhi.
Antigene somatico O e ciliare H e Vi di superficie, localizzato all’esterno della parete cellulare.
Gli antigeni Vi e O inducono la formazione di anticorpi specifici che hanno significato protettivo.
I ceppi di S. Typhi possono essere suddivisi in lisotipi in base alla diversa sensibilità ad una serie di batteriofagi ed in genotipi mediante metodi per l’analisi molecolare del DNA batterico.
S. Typhi penetra nell’organismo per via orale (in genere con l’acqua o con gli alimenti).
Si localizza nelle strutture linfatiche della parete intestinale (follicoli e placche di Peyer) e nei linfonodi mesenterici, dove va incontro ad una attiva moltiplicazione (moltiplicazione primaria).
Da qui i batteri raggiungono il dotto toracico e, quindi, il circolo ematico, diffondendosi nell’organismo e localizzandosi in particolare nei linfonodi, milza, fegato, midollo osseo e polmoni.
Dal fegato, con la bile, essi ritornano nell’intestino e determinano l’invasione secondaria delle strutture linfatiche intestinali; qui, per effetto della precedente sensibilizzazione, inizia un processo flogistico che porta alla necrosi, con successiva caduta delle escare e comparsa delle caratteristiche ulcerazioni che riproducono a stampo la morfologia dei follicoli e della placche di Peyer. E’ in questa fase che possono verificarsi le più temute complicanze della febbre tifoide : lesioni vascolari con enterorragia e perforazione della parete intestinale con conseguente peritonite.
L'incubazione va da 1 a 3 settimane.
In epoca preantibiotica la sintomatologia della febbre tifoide si svolgeva in 4 periodi successivi, ciascuno della durata di 7 giorni circa (settenari). Attualmente, con il precoce trattamento antibiotico, la malattia ha decorso più breve; la letalità, che in passato era molto elevata, è scesa a meno dell’1%.
Sono frequenti forme a decorso attenuato ed infezioni asintomatiche, in rapporto alla carica infettante ed alle capacità di difesa dell’individuo.
- Periodo di invasione o 1° settenario : corrisponde alla diffusione dei batteri del tifo nel circolo ematico con conseguente batteriemia. E' caratterizzato da febbre che si eleva gradatamente, con punte che superano ogni sera di mezzo o di 1 grado quelle della sera precedente e con remissioni mattutine sempre meno profonde, avendosi così la tipica curva termica “a gradini”; è caratteristica la dissociazione tra l’aumento della temperatura e la frequenza del polso, che si mantiene relativamente bassa.
- Periodo di stato o 2° e 3° settenario : va dalla localizzazione secondaria dei batteri nei linfatici intestinali fino alla formazione delle ulcere. In questo periodo si instaurano i sintomi indicatori della malattia: stato stuporoso del paziente, comparsa di roseole sulla cute dell’addome, spleno ed epatomegalia, lingua fuligginosa, addome meteorico con feci spesso diarroiche e di colore verdastro. La febbre si mantiene costante su valori elevati; negli ultimi 4-5 giorni si hanno ampie oscillazioni con profonde remissioni mattutine, leucopenia con neutropenia e linfocitosi relativa e
possono manifestarsi complicanze quali enterorragia con melena e perforazione con peritonite
- Periodo di defervescenza o 4° settenario : corrisponde al processo di detersione e di riparazione delle ulcere. La febbre continua a scendere in modo graduale, con modalità molto simili a quelle del periodo di ascesa e tutti i sintomi regrediscono rapidamente.
Diagnosi : l'emocoltura può essere effettuata nelle fasi iniziali della malattia, quando cioè S. Typhi è presente nel sangue. Va effettuata prelevando un campione di sangue, prima della somministrazione di antibiotici, tutte le volte che si ha febbre non immediatamente riferibile a cause altrimenti individuabili. La sieroagglutinazione : si positivizza a cominciare dalla 2° settimana dall’inizio della sintomatologia, quando gli anticorpi iniziano a comparire nel siero in quantità dimostrabili. Consiste nella ricerca quantitativa differenziata degli anticorpi anti-O e anti-H e si esegue addizionando a diluizioni del siero del paziente (da 1:50 a 1:400) sospensioni di batteri del tifo trattati con alcol (sospensione O) e con formolo (sospensione H).
La comparsa delle agglutinine O ed H non avviene contemporaneamente; le agglutinine O sono le prime a comparire (6°-8° giorno) ma anche le più rapide a scomparire, mentre le agglutinine H compaiono più tardivamente (10°-12° giorno) ma persistono per mesi o anche per qualche anno.
coprocoltura : spesso positiva nelle fasi avanzate della malattia, quando le salmonelle passano con le escare nel lume intestinale e vengono espulse con le feci. Va anche effettuata durante la convalescenza per accertare che il soggetto non sia rimasto portatore di bacilli tifici.
Prevenzione
Misure preventive che devono essere adottate ogni volta che si individua un caso di febbre tifoide. Mirano ad impedire il contagio diretto dal malato al sano e la dispersione dei batteri nell’ambiente. Per evitare il contagio diretto o tramite la biancheria ed altri oggetti venuti a contatto con il malato, è opportuno che questo sia assistito in ospedale, dove è possibile realizzarne l’isolamento fisico e funzionale.
Lo stesso isolamento può essere disposto dal medico curante nel domicilio del malato, se è possibile riservargli per tutta la durata della malattia una stanza con bagno, funzionalmente separata dal resto dell’abitazione, e se l’assistenza sarà assicurata da persona in grado di seguire le prescrizioni che devono essere date per evitare il contagio intrafamiliare e la dispersione di materiale contaminato al di fuori dell’abitazione.
A tal riguardo è essenziale prescrivere l’uso di disinfettanti per le mani di chi assiste il malato, da usarsi dopo ogni contatto con esso, nonché la disinfezione di tutto ciò che gli appartiene.
Per la disinfezione della biancheria e delle stoviglie è sufficiente l’abituale lavaggio nelle comuni macchine lavatrici per uso domestico; altrimenti si effettuerà un bagno in soluzione di varechina prima del lavaggio a mano.
Dopo la guarigione del malato è opportuno procedere alla disinfezione della stanza di degenza con formalina immessa allo stato di vapore, di nebbia o di aerosol, oppure con altro idoneo disinfettante (iodofori) allo stato di aerosol, in modo che l’azione si esplichi su tutte le superfici (comprese quelle dei mobili e delle suppellettili).
Secondo le disposizioni vigenti nel nostro paese, l’isolamento del malato deve durare fino a quando non si ottengono tre coprocolture negative, eseguite ad intervalli di almeno 24 ore l’una dall’altra.
La prima coprocoltura sarà eseguita dopo la guarigione clinica quando la terapia antibiotica è stata sospesa da almeno tre giorni. In caso di positività persistente (portatore convalescente) si attuerà la dimissione, ma si dovrà dare comunicazione al Servizio di Igiene dell’Azienda ASL in cui risiede il dimesso. I conviventi devono essere tenuti sotto sorveglianza sanitaria per 20 giorni a partire dall’ultimo contatto con il malato e devono essere sottoposti ad esame coprocolturale per scoprire eventuali portatori.
Coloro che sono addetti a particolari attività (assistenza sanitaria, produzione, preparazione, distribuzione di alimenti) devono essere sospesi per tutto il periodo di sorveglianza sanitaria e vanno riammessi al termine di questa, dopo aver ottenuto tre coprocolture negative.
La bonifica dei portatori cronici difficilmente può essere ottenuta con la somministrazione di antibiotici e chemioterapici (amoxicillina, ampicillina, trimetoprim-sulfametossazolo, norfloxacina), anche se essa viene prolungata, perché i batteri del tifo localizzati nella colecisti o a livello di calcoli renali sono spesso protetti dall’azione degli antibiotici.
Solo la colecistectomia o l’asportazione dei calcoli dà migliori risultati, ma l’intervento chirurgico non può essere imposto e va eseguito solo se esistono altre indicazioni derivanti dallo stato di salute del soggetto.
Al portatore deve essere vietata ogni attività lavorativa che comporti un rischio di trasmissione dell’infezione per contagio diretto o indiretto.
In particolare, non dovrà essere addetto alla produzione, preparazione o distribuzione di alimenti, né ai servizi idrici. Inoltre dovrà essere adeguatamente informato del rischio derivante ai suoi conviventi ed alla comunità dal suo stato di portatore e della possibilità di ridurlo curando scrupolosamente la pulizia personale ed evitando di disperdere le proprie feci ed urine.
Infine, sarà opportuno sottoporre a vaccinazione i conviventi.

Interventi che vanno programmati ed attuati nel territorio e nella popolazione
Gli interventi sul territorio hanno lo scopo di evitare che l’acqua e gli alimenti possano svolgere il ruolo di veicoli. La bonifica dell’ambiente va vista essenzialmente come protezione del suolo e delle acque dall’inquinamento fecale :
- raccolta e allontanamento dei liquami in idonee reti di fognature e loro smaltimento in siti opportunamente scelti, dopo trattamento di depurazione in adatti impianti
- protezione delle fonti di approvvigionamento idrico, vigilanza sulle opere di raccolta dell’acqua e sulle reti di distribuzione degli acquedotti, controlli periodici della qualità dell’acqua erogata
- controllo degli alimenti.
Gli interventi sulla popolazione consistono nell’educazione sanitaria e nella vaccinazione, che è utile solo in aree con elevata endemicità.
La vaccinazione di massa può essere utile solo nei paesi in via di sviluppo dove la febbre tifoide è presente con elevati livelli di endemicità e frequenti episodi epidemici.
La vaccinazione individuale può essere consigliata a tutti coloro che da zone indenni o con bassa endemicità si recano in aree dove il rischio di infezione è elevato, facendo loro presente che devono, comunque, essere cauti nella scelta dell’acqua, delle bevande e di cibi.
Attualmente si impiegano due diversi tipi di vaccino
-Vaccino orale con batteri vivi attenuati : esso, pur esercitando attività immunogena direttamente sulla mucosa, non manifesta capacità aggressiva verso di essa perché perché il difetto metabolico produce accumulo di galattosio all’interno delle cellule batteriche con richiamo di acqua e conseguente lisi osmotica. La dose vaccinale è costituita da 3 capsule gastroprotette da ingerire a giorni alterni (a 1,3 e 5 giorni) con dose uguale sia per il bambino sia per l’adulto.
Il vaccino stimola una elevata produzione di IgA a livello della mucosa intestinale, che blocca l’infezione alla porta di ingresso, impedendo l’impianto e la moltiplicazione dei batteri virulenti.
L’efficacia protettiva è del 70-90% e persiste per almeno 2-3 anni.
Il vaccino è controindicato nelle donne in gravidanza e nei bambini al di sotto del terzo mese di vita. Non va somministrato a soggetti in trattamento con antibiotici attivi su S. Typhi e in concomitanza con il vaccino antipolio orale. Le reazioni secondarie sono rare e sono rappresentate da lievi disturbi gastro-intestinali
- Vaccino polisaccaridico composto dal polisaccaride esterno, capsulare Vi di S. Typhi altamente purificato : viene inoculato per via intramuscolare in unica dose di 0,5 ml. L'efficacia protettiva è del 60-90% e persiste per almeno 3 anni. Le reazioni secondarie sono lievi e di breve durata

domenica 15 aprile 2012


Colera

Il colera è una malattia diarroica acuta e contagiosa determinata da un vibrione capace di produrre enterotossine attive sull’epitelio della mucosa intestinale. E’ endemica in alcune zone dell’Africa. L’agente eziologico è Vibrio cholerae, appartenente al genere Vibrio della famiglia delle Vibrionaceae.
Il genere Vibrio comprende specie patogene per l’uomo (V. cholerae, V. parahaemolyticus, V. vulnificus), specie patogene opportuniste ed altre saprofite isolate dalle acque dolci e marine.
Vibrio cholerae è un bastoncello Gram-negativo, tipicamente incurvato a virgola, lungo 1,5-3 micrometri e largo 0,4-0,6 micrometri, non sporigeno e privo di capsula, mobile per la presenza di un ciglio ad una estremità; è aerobio con temperatura ottimale di 37°C.
Possiede due antigeni : antigene flagellare H, termolabile, uguale in tutti i ceppi e l' antigene somatico O, termostabile, di cui si conoscono oltre 70 tipi diversi.
I vibrioni colerici appartengono al sierogruppo O1 contengono un antigene specifico A presente in tutti i ceppi ed altri due antigeni principali, B e C, variamente distribuiti.
Le diverse combinazioni dell’antigene A con gli antigeni B e C hanno dato origine ai tre sierotipi noti : Ogawa (AB), Inaba (AC) e Hikojima (ABC). Un altro sierogruppo o sierotipo di vibrioni colerici è O139.
Il vibrione colerico nell’ambiente esterno ha una capacità di resistenza variabile in rapporto a fattori diversi (temperatura, umidità, presenza di sostanze organiche ecc.); nell’acqua potabile può resistere da 7 a 13 giorni, ma soltanto 1-2 giorni in quella contaminata dei fiumi; nei frutti di mare o nel latte fino a 14 giorni a temperatura di frigorifero.
E’ distrutto rapidamente dall’essiccamento e dai comuni disinfettanti
I vibrioni penetrano per via orale e si localizzano nell’intestino tenue; si moltiplicano attivamente senza invadere la mucosa intestinale ed esplicano la loro azione attraverso la produzione di una enterotossina di natura proteica, che è la responsabile del quadro clinico diarroico della malattia.
L’enterotossina colerica è costituita da una subunità A tossica e da subunità B che inducono il legame della tossina ad uno specifico recettore delle cellule della mucosa intestinale.
La tossina agisce penetrando nelle cellule della mucosa, dove la subunità A (con i suoi due componenti A1 e A2) attiva l’enzima adenil-ciclasi presente nella membrana cellulare; questo enzima catalizza una reazione che favorisce la trasformazione dell’ATP cellulare in AMP ciclico, il quale svolge un ruolo importante nella regolazione dell’equilibrio idro-salino.
L’aumentata concentrazione di AMP ciclico determina una notevole ipersecrezione di acqua e di elettroliti, che può superare anche il litro per ora. L’enterotossina si lega alla mucosa così rapidamente che la somministrazione di antitossina, anche soltanto dopo qualche minuto, non riesce a bloccarne l’attività. L’attività della tossina si esaurisce in 24-36 ore circa, fin quando cioè non viene rinnovato l’epitelio della mucosa, salvo poi a riprendere se le nuove cellule si trovano in contatto con nuova tossina.
Periodo di incubazione variabile da poche ore a 5 giorni
La malattia inizia bruscamente con vomito, dolori addominali e diarrea profusa (scariche assai frequenti con perdite giornaliere fino a 10-20 litri di liquidi); le feci assumono il caratteristico aspetto di “acqua di riso”, incolori e acquose con piccoli ammassi costituiti da muco e residui di cellule della mucosa. L’imponente perdita di liquidi e di elettroliti è la manifestazione più tipica del colera; ne conseguono rapida disidratazione con crampi muscolari, acidosi metabolica, anuria, collasso cardiocircolatorio. La durata della malattia è di qualche giorno.
La letalità che nel passato raggiungeva il 50-70%, oggi con il ripristino dell’aliquota idroelettrolitica e la somministrazione di antibiotici non supera l’1-5%.
Nelle aree endemiche sono molto frequenti le infezioni inapparenti o seguite solo da diarrea leggera (rapporto del numero di casi di malattia con quello delle infezioni asintomatiche è di 1:5-1:10).
La ricerca colturale viene effettuata mediante coltura delle feci e del vomito; la identificazione delle colonie sospette viene fatta con prove biochimiche e di agglutinazione rapida su vetrino con gli antisieri specifici.
Dalla patria di origine del sud-est asiatico, il colera in passato periodicamente si diffondeva in diverse parti del mondo seguendo le vie di propagazione più naturali, rappresentate soprattutto da quelle religiose (pellegrinaggi alla Mecca) e commerciali.
A partire dal 1961 ha avuto inizio la 7° pandemia che è tuttora in fase attiva e che ha coinvolto numerosi paesi, alcuni dei quali sono divenuti aree endemiche.
In Europa rischio di importazione del colera dalle aree attualmente in fase endemica a causa dei traffici turistici, commerciali e di lavoro.
Sorgenti di infezione e modalità di trasmissione: l’uomo, malato o portatore, è l’unico serbatoio naturale dell’infezione. Il malato elimina il vibrione principalmente con le feci, ma anche con il vomito. Nella fase della convalescenza l’eliminazione può durare 2-3 settimane (solo eccezionalmente per mesi o anni), il portatore sano di solito resta eliminatore di vibrioni solo per pochi giorni o qualche settimana. La trasmissione o contagio è essenzialmete indiretta, quella interumana è possibile ma rara. La trasmissione avviene attraverso l’ambiente e l’acqua, che rappresenta il più importante veicolo di diffusione della malattia; anche gli alimenti sono importanti (es. ortaggi irrigati con acque contaminate, frutti di mare allevati in tratti di mare contaminati).
Prevenzione
Il colera è una malattia soggetta a notificazione obbligatoria internazionale.
L’isolamento dei malati deve essere ospedaliero e deve continuare fino alla negatività di 3 coprocolture eseguite a giorni alterni dopo la guarigione clinica.
La prima coprocoltura sarà eseguita almeno 3 giorni dopo la fine del trattamento antimicrobico.
Anche se il contagio interumano è raro, è utile la disinfezione continua di tutti gli effetti provenienti dal malato (feci, vomito, biancheria) e l’accurata pulizia dell’ambiente in cui esso si trova. I conviventi ed i contatti devono essere sottoposti a sorveglianza sanitaria per la durata di 5 giorni a partire dall’ultimo contatto con il malato. Verrà inoltre effettuata la ricerca di eventuali portatori e coloro per i quali la coprocoltura abbia dato risultato positivo saranno tenuti in isolamento fino a bonifica ottenuta.
La chemioprofilassi è riservata ai contatti; si attua mediante somministrazione di tetracicline, doxiciclina o cotrimossazolo.
Tutti i soggetti sottoposti a sorveglianza non dovranno essere impiegati in attività direttamente o indirettamente inerenti la produzione, preparazione, manipolazione, distribuzione e vendita di alimenti per un periodo di 5 giorni dall’ultimo contatto con il malato.
In caso di positività della prima coprocoltura saranno riammessi al posto di lavoro previa negatività di 3 coprocolture eseguite a 24 ore di distanza l’una dall’altra dopo 3 giorni dalla fine dell’eventuale trattamento chemioantibiotico o del periodo di sorveglianza.
La prevenzione più efficace del colera consiste nella clorazione dell’acqua potabile, nell’idoneo smaltimento delle acque reflue e nel controllo degli alimenti.
I vaccini costituiti da vibrioni del colera uccisi e somministrati per via intramuscolare sono stati abbandonati per la loro limitata efficacia protettiva e per l’elevata frequenza di reazioni locali e generali.
Attualmente è disponibile un vaccino orale costituito da vibrioni del colera uccisi ed associati alla subunità B dell’enterotossina purificata.
Questo vaccino agisce sulla mucosa intestinale stimolando la produzione di anticorpi IgA e inducendo così una immunità mucosale di barriera contro la colonizzazione da parte dei vibrioni e contro l’azione dell’enterotossina da essi prodotta.
Due dosi di vaccino (tre dosi per i bambini tra i due e i sei anni) assunte per via orale ad una settimana di distanza l’una dall’altra assicurano una protezione dell’85-90%, con reazioni secondarie praticamente assenti.
La durata della protezione è di due anni per gli adulti (sei mesi per i bambini al di sotto dei sei anni di età), per cui deve essere richiamata con una singola dose.
Le persone vaccinate sono anche parzialmente protette (efficacia protettiva del 50%) dalle infezioni da parte dei sierotipi enterotossigeni ETEC di Escherichia coli, che producono l’enterotossina LT simile a quella del colera.

martedì 10 aprile 2012


Amebiasi

Per amebiasi si intende la presenza nell’organismo di Entamoeba histolytica, con o senza manifestazioni cliniche. Per infezione amebica si intende la presenza di trofozoiti nel lume intestinale senza lesioni dei tessuti. Per malattia amebica si intende l’invasione da parte del protozoo dei tessuti della parete intestinale e/o di altri organi o apparati.
Si calcola che attualmente l’amebiasi interessi non meno del 10% della popolazione mondiale, con una diffusione assai variabile da zona a zona e con una netta prevalenza di soggetti asintomatici (portatori) rispetto a quelli con sindrome clinica manifesta.
L’agente eziologico è Entamoeba histolytica, che fa parte del genere Entamoeba, della famiglia delle Entamoebidae. Il genere Entamoeba comprende sei specie di amebe che vivono nel tubo gastro-enterico dell’uomo.
E. histolytica è la sola patogena per l’uomo, in grado di invadere i tessuti. Il ciclo biologico si svolge nell’intestino dell’uomo e comprende 4 fasi : trofozoita in forma minuta, precistica, cistica, metacistica. Nei ceppi virulenti si inserisce una 5° fase di sviluppo intratissutale, quella di trofozoita in forma istolitica (magna, ematofaga)
Le cisti vengono eliminate all’esterno con le feci e rappresentano le forme normalmente infettanti l’uomo.
- Trofozoita in forma minuta : rappresenta la fase normale della vita vegetativa del protozoo, che vive nel lume dell’intestino crasso o sulla sua mucosa, riproducendosi per scissione diretta
ha un diametro di 7-15 micrometri ed appare di forma assai variabile. Il trofozoita è dotato di movimenti vivaci e possiede intensa attività fagocitaria, nutrendosi di batteri, amido ecc. E' assai labile e viene distrutto in poche ore nell’ambiente esterno. Nella maggior parte dei casi i trofozoiti si moltiplicano sempre nella forma minuta, senza invadere la parete intestinale, realizzandosi così lo stato di portatore asintomatico
- Fase precistica : i trofozoiti, trasportati dalla massa fecale, giungono nella parte distale del colon e nel retto dove, in seguito alla progressiva disidratazione assumono forma rotondeggiante, mentre intorno comincia a formarsi la parete cistica. Di solito sia la forma minuta che quella precistica non si ritrovano nelle feci, ad eccezione dei casi in cui, per processi concomitanti (es. diarrea), la massa fecale viene espulsa rapidamente, senza sufficiente disidratazione
- Fase cistica : si completa la formazione della parete cellulare, che appare costituita da strati ben distinti tra di loro. La cisti matura si presenta di forma sferica con un diametro di 7-15 micrometri, contiene 4 nuclei derivanti da due divisioni successive. Le cisti vengono eliminate all’esterno con le feci e rappresentano le forme normalmente infettanti l’uomo. Sono molto resistenti nell’ambiente esterno e sopravvivono nelle feci umane fino a 7-12 giorni, sul suolo e nelle acque per 2-3 settimane a temperatura ambiente e fino a 40 giorni a 2-6 °C, sulle mani da pochi minuti a qualche ora, sulle verdure per alcuni giorni. Resistono al cloro alle normali concentrazioni d’uso per la potabilizzazione dell’acqua, vengono inattivate dall’essiccamento, dal calore al di sopra dei 55 °C, dalle soluzioni al 5% di cresolo e di acido acetico per 15 minuti, dallo iodio 200 ppm, dalla superclorazione per 30 minuti con cloro-residuo di 1 ppm a pH 5,9 ed alla temperatura di 27°C.
- Fase metacistica : dalla cisti matura ingerita da un nuovo ospite, nell’ultimo tratto del tenue, sotto l’azione dei succhi enterici, si libera un’ameba con 4 nuclei, i cui 4 nuclei si separano dando luogo alla formazione di amebule mononucleate; queste, giunte nel cieco e nel colon ascendente, si trasformano in trofozoiti in forma minuta.
- Trofozoita in forma istolitica : rappresenta la fase patogena della vita vegetativa dell’ameba, a sviluppo intratissutale, che si osserva nel 10% circa delle infezioni. Si distingue dalla forma minuta per il diametro maggiore, di 20-30 micrometri, i movimenti più vivaci e per il fatto di essere ematofaga. I trofozoiti istolitici attraversano la mucosa intestinale soprattutto per l’attività di enzimi proteolitici e si diffondono negli strati profondi della sottomucosa, dove determinano fenomeni di necrosi litica che portano alla formazione delle tipiche ulcere e alla comparsa dei segni clinici della malattia (anche se non sempre l’invasione dei tessuti della parete si accompagna ad una sintomatologia, come è dimostrato dalla comparsa di ascessi epatici in soggetti senza una storia precedente di episodi dissenterici).
Possono quindi invadere gli strati muscolari e la sierosa con conseguente peritonite o lisare le pareti vasali con localizzazione metastatica al fegato attraverso il circolo portale e di qui eventualmente ad altri organi (polmoni, cervello, milza), dove possono provocare la comparsa di ascessi.
Le localizzazioni extraintestinali sono sempre secondarie a quella intestinale, anche subclinica.
la forma istolitica si ricontra nelle feci dissenteriche; tuttavia, se le lesioni sono piccole e limitate, può avere inizio il prcesso d’incistamento, ritrovandosi così nelle feci sia il trofozoita che le forme precistica e cistica

giovedì 5 aprile 2012


Epatite virale D

L’agente eziologico dell’epatite D (HDV) è un virus difettivo che ha bisogno del virus dell’epatite B (HBV) come helper per infettare l’uomo. Nel caso di coinfezione acuta da HBV e da HDV il decorso clinico è simile a quello che si ha nell’infezione da HBV da solo, ma il rischio di epatite fulminante è molto più elevato (5% dei casi di coinfezione contro 0,1% dei casi di infezione da solo HBV). Quando l’infezione da HDV avviene in un portatore di HBV (superinfezione) il decorso dell’epatite cronica si aggrava e diviene rapidamente progressivo.
RNA, HDAg, HbsAg.
La sorgente di infezione è esclusivamente umana e la trasmissione avviene per via parenterale e sessuale, con le stesse modalità del virus HBV. La trasmissione perinatale è possibile ma è meno frequente rispetto a quella dell’HBV. La ricerca degli anticorpi anti-HDV può essere fatta con test immunoenzimatici. Data la stretta dipendenza dell’HDV dall’HBV, le procedure di prevenzione dell’epatite B sono efficaci anche contro l’epatite D.
In particolare, le persone vaccinate contro l’epatite B sono protette anche dall’epatite D.


domenica 1 aprile 2012


Epatite virale B

L’epatite virale B è una malattia infettiva che nella fase acuta ha un decorso clinico del tutto simile a quello delle altre forme di epatite virale. Da esse si distingue, oltre che per il diverso agente eziologico, anche dal punto di vista epidemiologico e prognostico. In particolare, differisce dall’epatite A per le modalità di trasmissione, per il più lungo periodo di incubazione e per la tendenza alla cronicizzazione. Per tutti questi aspetti l’epatite B è simile all’epatite C, anche se i rispettivi agenti eziologici sono del tutto diversi.
Il virus dell’epatite B, indicato con l’acronimo HBV (Hepatitis B virus) è un epadnavirus a DNA.
L’HBV è uno dei virus più resistenti agli agenti fisici e chimici: resiste per più di una settimana nell’ambiente ed è inattivato solo dopo un’ora di esposizione alla temperatura di 90°C e dopo 15 minuti alla temperatura di 100°C.
Tuttavia, è sensibile ai comuni disinfettanti, come la candeggina (ipoclorito di sodio) diluita 1/10.
Ai fini diagnostici e prognostici sono importanti tre diversi antigeni virali :
- l’antigene “s” di superficie o HbsAg corrispondente all’involucro esterno del virus; presenta un determinante di gruppo indicato con la lettera “a” e diversi determinanti di tipo (d,y,w,r) che consentono di definire dei sottotipi con diversa distribuzione geografica
- l’antigene “c” del core o HbcAg
- l’antigene “e” o HbeAg
Ciascuno dei tre antigeni stimola la produzione dei corrispondenti anticorpi : anti-HBs, anti-HBc, anti-Hbe.
Le particelle virali, penetrate nell’organismo con l’inoculazione di sangue o di altri liquidi biologici contaminati o attraverso le mucose genitali durante i rapporti sessuali, raggiungono il fegato e si moltiplicano all’interno degli epatociti.
L’infezione resta spesso asintomatica, specialmente nei bambini, ed è rivelata, anche a distanza di tempo, solo dalla presenza di anticorpi specifici (nelle infezioni croniche, dalla presenza di HbsAg).
In una minoranza di casi, l’infezione acuta si manifesta con i segni ed i sintomi tipici del danno epatico (ittero, nausea, inappetenza, feci acoliche, astenia, ecc.), che non è dovuto ad azione diretta del virus, in quanto questo non ha effetto citopatico, ma a necrosi degli epatociti ed a fenomeni infiammatori immunomediati.
Le infezioni sintomatiche possono presentare un’ampia gamma di manifestazioni, attribuibili a meccanismi immunitari, in base ai quali si distinguono varie forme cliniche :
- forme subacute con manifestazioni aspecifiche : anoressia, nausea, malessere
- forme acute con sintomi extraepatici : artralgie, artriti, rash maculare, trombocitopenia, ecc. che possono precedere la comparsa dell’ittero
- forme itteriche tipiche, non distinguibili clinicamente dalle altre epatiti virali
- forme fulminanti
Il periodo di incubazione è di 45-160 giorni, assai più lungo rispetto a quello di 15-50 giorni dell’epatite A.
A differenza ancora dall’epatite A, l’epatite B tende a cronicizzare, con frequenza diversa a seconda dell’età in cui si contrae linfezione: la cronicizzazione si ha in circa il 90% dei bambini infettati dalla madre con trasmissione perinatale, nel 25-50% dei bambini infettatisi all’età da 1 a 5 anni, nel 6% circa dei bambini più grandi e degli adulti.
L’infezione cronica da HBV è caratterizzata dalla persistenza in circolo dell’antigene di superficie HbsAg.
Le infezioni perinatali e quelle contratte nei primi cinque anni di vita di solito restano silenti per decenni senza aumento dei valori delle transaminasi e solo con modeste alterazioni del quadro istologico epatico (fase di tolleranza).
In questi portatori asintomatici si ha solo la presenza di HbsAg, con o senza anti-HBc, e bassi livelli circolanti di HBV-DNA.
Tuttavia, anche in questi casi, nel lungo termine, si può avere l’evoluzione verso la cirrosi o verso il carcinoma epatocellulare, con frequenza assai più elevata (fino al 25%) rispetto alle infezioni contratte e cronicizzate nei bambini più grandi e negli adulti.
Le infezioni che persistono nei bambini più grandi e negli adulti di solito presentano segni di danno epatico e possono essere distinte in due forme di epatite cronica, a seconda che sia presente o no l’HbeAg:
- epatite cronica HbeAg-positiva, con presenza di HbsAg, HbeAg, anti-HBc, elevati livelli di HBV-DNA (indice di attiva replicazione virale), quadro istologico di epatite cronica attiva, fluttuazione delle concentrazioni delle transaminasi con elevazione dei valori in concomitanza con i più alti picchi viremici. I soggetti portatori di HbeAg, oltre che di HbsAg, possono trasmettere più facilmente l’infezione. Con il passare del tempo, si può avere comparsa di anticorpi anti-HBe con scomparsa dell’HbeAg e diminuzione dei livelli di HBV-DNA e delle transaminasi; si ha in tal caso il passaggio all’altra forma di epatite cronica.
- epatite cronica HbeAg-negativa e anti-Hbe-positiva, con presenza di HbsAg, anti-Hbe, anti-HBc, quadro istologico meno alterato, livelli di HBV-DNA più bassi ma con occasionali aumenti accompagnati da elevazioni delle transaminasi.
Anche in questa forma si può avere ricomparsa dell’HbeAg con riacutizzazione della fase aggressiva epatica, sicchè le due forme di epatite cronica possono essere considerate momenti diversi della condizione di infezione cronica.
Diagnosi
Oltre alla determinazione di parametri biochimici, quali le transaminasi ALT ed AST, la gamma-GT, ecc., è di particolare valore diagnostico e prognostico la determinazione degli antigeni virali e dei corrispondenti anticorpi. A tali fini è importante anche la ricerca ed il dosaggio del DNA virale con test di ibridazione o di amplificazione genica mediante la reazione polimerasica a catena (PCR).
- HBsAg : antigene di superficie : presente nelle infezioni in fase acuta e nelle infezioni croniche
viene prodotto con tecniche di ingegneria genetica per la preparazione del vaccino anti-epatite B
- Anti-HBs : anticorpi contro l’antigene di superficie : sono presenti, assieme agli anti-HBc, nelle persone che hanno superato l’infezione. Sono presenti, da soli, nelle persone vaccinate
- HbeAg : antigene “e” : è indice di elevata contagiosità. E' presente nelle persone con epatite cronica nelle fasi di attiva moltiplicazione virale e si accompagna ad elevati titoli di HBV-DNA
- Anti-Hbe : anticorpi contro l’antigene “e” : quando sono presenti in un portatore cronico, indicano basso rischio di trasmissione dell’infezione
- Anti-HBc : anticorpi contro il core : sono presenti, assieme all’HbsAg, nelle persone con infezione cronica. Sono presenti, assieme agli anti-HBs, nelle persone che hanno superato l’infezione
- IgM anti-HBc : anticorpi IgM contro il core : sono presenti nelle infezioni acute, anche durante la “fase finestra”, quando è assente l’HbsAg e nelle infezioni recenti
Epidemiologia
L’epatite virale B è malattia diffusa in tutto il mondo, con più elevata frequenza nelle aree tropicali e subtropicali e, più in generale, nei paesi in via di sviluppo. In Italia, l’incidenza dei casi notificati è progressivamente diminuita grazie all’insieme degli interventi di prevenzione che sono stati attuati nel tempo. Nel corso di un decennio, il numero dei casi notificati si è più che dimezzato, da 3.173 nel 1993 a 1.034 nel 2005.
Anche la prevalenza dei portatori di HbsAg è progressivamente scemata in tutte le regioni, tanto che attualmente non vi sono più le vistose differenze regionali del passato; in particolare, lo stato di portatore è divenuto raro nelle fasce di età che sono state sottoposte alla vaccinazione obbligatoria a partire dal 1991.
L’HBV infetta solo l’uomo. Pertanto, serbatoio e sorgente di infezione sono soltanto il malato ed il portatore. Nel mantenimento dell’endemia e nella diffusione del virus sono i portatori che hanno la massima importanza. Oltre che nel sangue, l’HBV si trova in vari fluidi corporei, principalmente nello sperma e nelle secrezioni vaginali; in concentrazione molto minore è presente anche nella saliva. Le vie di penetrazione del virus sono costituite da lesioni della cute e dalle mucose, anche se integre; attualmente, la trasmissione tra adulti avviene principalmente con i rapporti sessuali e con siringhe riutilizzate tra tossicodipendenti, mentre per i bambini resta presente il rischio di trasmissione perinatale da parte della madre portatrice.
La trasmissione perinatale avviene nel corso del travaglio o all’atto del parto, con frequenza che va dal 70% al 90% nel caso di madri portatrici di HbsAg e di HbeAg e del 5-20% se la madre è portatrice di HbsAg ma è HbeAg negativa; è raro che la trasmissione avvenga durante la gestazione (meno del 2% di tutte le infezioni perinatali).
In Italia, come in tutti i paesi sviluppati, la trasmissione con le emotrasfusioni e con gli emoderivati ha perso ogni importanza, grazie ai controlli cui vengono sottoposti i donatori ed ai trattamenti di decontaminazione degli emoderivati.
Anche la trasmissione con strumentario medico-chirurgico ed odontoiatrico è stata praticamente eliminata grazie all’uso sistematico di materiale sterilizzato o monouso sterile.
Resta di una certa importanza il rischio derivante dall’esecuzione di tatuaggi e di piercing da parte di persone non qualificate. Infine, va menzionata la possibilità di contagio interpersonale in ambito famigliare per la stretta convivenza con un portatore; in questo caso, la trasmissione può avvenire per contaminazione di lesioni cutanee o delle mucose con sangue o altri fluidi corporei del portatore o con l’uso in comune di rasoi, pettini, forbici, spazzolini da denti.
Attualmente, le persone maggiormente esposte al rischio di infezione sono i tossicodipendenti che usano droghe per via iniettiva, le persone con partner multipli, i maschi omosessuali e bisessuali, i conviventi ed i partner di portatori; un maggiore rischio rischio di infezione vi è anche per tutti coloro che hanno contatti con il sangue per motivi professionali (medici, odontoiatri, infermieri, addetti ai laboratori di analisi).
Prevenzione
La conoscenza delle vie e delle modalità di trasmissione dell’HBV ha consentito di mettere in pratica, già prima della disponibilità del vaccino, efficaci misure di prevenzione in ambito medico e chirurgico.
In particolare, lo screening dei donatori e la preparazione degli emoderivati con procedure che eliminano l’HBV hanno azzerato i casi trasfusionali e quelli conseguenti alla somministrazione di plasma, immunoglobuline, fattori della coagulazione.
Nella pratica medica, è stata di grande efficacia l’adozione di una serie di procedure diventate prassi comune di comportamento : impiego di siringhe e di altro materiale medico-chirurgico ed odontoiatrico sterile monouso, loro introduzione in contenitori rigidi e chiusura ermetica dopo l’uso, scrupoloso controllo della correttezza della sterilizzazione dello strumentario riutilizzabile.
Per quel che riguarda i malati in cui è stata posta la diagnosi di epatite B, l’isolamento non è necessario.
I malati, i portatori ed i loro conviventi devono essere informati delle modalità di trasmissione e delle precauzioni atte ad evitare il rischio di trasmissione dell’infezione.
I conviventi ed i partner sessuali dei malati e dei portatori vanno sottoposti alla ricerca dei marker sierologici di avvenuta infezione (anti-HBs, eventualmente anti-HBc); in caso di negatività essi devono essere vaccinati. Attualmente sono in uso vaccini preparati con la tecnologia del DNA ricombinante, che contengono HbsAg ottenuto da cellule di Saccharomyces cerevisiae (lievito di birra) nel cui DNA è stato inserito il gene S del virus epatitico B (che presiede alla sintesi dell’HbsAg).
Essi presentano elevate caratteristiche di sicurezza e di efficacia immunogena e protettiva.
A seguito della somministrazione di un ciclo vaccinale completo, la percentuale di sieroconversione è superiore al 95%; studi di immunogenicità indicano che gli anticorpi anti-HBs possono permanere per almeno 5-10 anni, a seconda della schedula vaccinale adottata, ma la memoria immunitaria e la protezione dall’infezione sono di ben più lunga durata (oltre 15 anni), sicchè non è raccomandata la somministrazione di successive dosi di richiamo.
Le reazioni post-vaccinali sono rare e di scarsa entità (dolorabilità e gonfiore in sede di inoculo)
La via di inoculazione è quella intramuscolare o sottocutanea, in sede deltoidea nell’adulto (l’iniezione nella regione glutea ha una percentuale di immunizzazione più bassa), nella parte antero-laterale della coscia nel neonato.
Per i soggetti adulti e gli adolescenti il ciclo di vaccinazione prevede tre somministrazioni al tempo 0,1 e 6 mesi. Nei nuovi nati le tre dosi si somministrano con gli altri vaccini per l’infanzia al terzo, al quarto-quinto, ed all’undicesimo-dodicesimo mese di vita, utilizzando un vaccino esavalente (DTPa-IPV-HB-Hib).
Nei neonati che nascono da madre portatrice di HbsAg viene adottato, invece, lo schema di vaccinazione a 0,1,2 e 10-12 mesi; la prima somministrazione viene fatta contemporaneamente alle immunoglobuline specifiche alla nascita (entro le prime 12-24 ore di vita), la seconda dopo un mese, la terza al compimento del secondo mese (cioè, nel terzo mese) e la quarta all’undicesimo-dodicesimo mese; le ultime due vaccinazioni vengono eseguite insieme alle altre vaccinazioni usando un vaccino esavalente).
Questo schema a 4 vaccinazioni viene adottato anche nei confronti dei soggetti a rischio immediato, per i quali si richiede una più rapida protezione (soggetti vittime di punture accidentali, contatti con portatori)
La vaccinazione contro l’epatite B, con la legge 27 maggio 1991, n.165, è stata resa obbligatoria per tutti i nuovi nati.
In Italia circa 20.000 bambini all’anno nascono da madri HbsAg-positive e di questi circa 1.000 da madri anche HbeAg positive, per i quali la probabilità di contrarre l’infezione è del 70-90% e quella di divenire portatori cronici dell’85-90%).
La vaccinazione anti-epatite B, inoltre, deve essere offerta gratuitamente a tutte le categorie di cittadini che per motivi sociali, professionali o per abitudini di vita siano riconosciute ad elevato rischio di infezione, e precisamente:
- ai conviventi ed alle altre persone a contatto con soggetti HBsAg-positivi
- ai pazienti politrasfusi, emofilici ed emodializzati
- alle vittime di punture accidentali con aghi potenzialmente infetti
- ai soggetti affetti da lesioni croniche eczematose e psoriasiche della cute delle mani
- ai detenuti negli istituti di prevenzione e pena ed al personale ed agli ospiti di istituti per ritardati mentali
- alle persone che si rechino all’estero, per motivi di lavoro, in aree geografiche ad elevata endemia di HBV
- ai tossicodipendenti, agli omosessuali e ai soggetti dediti alla prostituzione
- al personale sanitario ed ai soggetti che svolgono attività di lavoro, studio e volontariato nel settore della sanità
- al personale della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri, del Corpo della Guardia di finanza, del Corpo degli Agenti di Custodia, dei Vigili del fuoco, dei Vigili urbani
- agli addetti ai servizi di raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti
Profilassi immunitaria passiva : consiste nell’impiego di immunoglobuline specifiche anti-HBs ad alto titolo (HBIG). Viene attuata soprattutto nei confronti di soggetti sieronegativi accidentalmente esposti al contagio (inoculazione, contatto di sangue infetto con le mucose) e di bambini nati da madri HbsAg positive in associazione alla vaccinazione. E' essenziale lo screening delle donne portatrici con la ricerca dell’HbsAg e dell’HbeAg nel terzo trimestre di gravidanza
i bambini nati da una donna portatrice devono essere protetti con immunoglobuline antiepatite B(HBIG) e con una prima dose di vaccino antiepatite B somministrati contemporaneamente entro 12-24 ore dalla nascita; una seconda dose di vaccino deve essere somministrata dopo un mese, mentre la terza e la quarta dose saranno somministrate, rispettivamente a 3 mesi ed a 11-12 mesi di vita assieme agli altri vaccini per l’infanzia (vaccino combinato esavalente).
In caso di esposizione all’infezione per contaminazione delle mucose (schizzi di sangue nelle congiuntive o su altre mucose) o per punture o lacerazioni con aghi o altri oggetti contaminati, bisogna valutare lo stato immunitario sia della persona esposta sia della persona da cui proviene il sangue:
- se la persona esposta è non vaccinata e la persona da cui proviene il sangue è HbsAg positiva si fa HBIG + 3 dosi di vaccino a 0,1,6 mesi
- se la persona esposta è non vaccinata e la persona da cui proviene il sangue è HbsAg negativa o non nota si fanno 3 dosi di vaccino a 0,1, 6 mesi
- se la persona esposta è vaccinata non responder e la persona da cui proviene il sangue è HbsAg positiva si fanno 2 dosi di HBIG a 0 e 1 mese + 3 dosi di vaccino a 0,1 e 6 mesi
- se la persona esposta è vaccinata non responder e la persona da cui proviene il sangue è non nota, si fanno 3 dosi di vaccino a 0,1 e 6 mesi
- se la persona esposta è vaccinata non responder e la persona da cui proviene il sangue è HbsAg negativa non si fa alcun trattamento
- se la persona esposta è vaccinata (si effettua il dosaggio degli anticorpi anti-HBs) e la persona da cui proviene il sangue è HbsAg positiva o non nota non si effettua alcun trattamento
Interventi sui portatori : il portatore deve essere informato del rischio di trasmissione dell’infezione e delle precauzioni atte a diminuirlo. La misura preventiva più efficace è, però, la vaccinazione del partner sessuale e dei conviventi